Meno figli, quale futuro?

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La popolazione italiana sta invecchiando e non vi è un adeguato ricambio generazionale: questo indicano i dati Istat 2013. Il numero dei nati è diminuito del 2,3% nel 2012, confermando l’andamento già registrato a partire dal 2009. Se non vi fossero stati circa un 15% di nati “stranieri” il bilancio sarebbe stato ancor più negativo. Il tasso di fecondità delle donne italiane è infatti uno dei più bassi in Europa (1,32 figli/donna in età fertile vs 2,31 delle cittadine straniere); si ha inoltre il primo figlio a un’età media sempre più avanzata (∼32 anni), con circa il 7% dei nuovi nati che ha una madre di 40 anni o oltre (Istat, 2012).

Le cause di questo fenomeno sono certamente complesse: riduzione delle potenziali madri per il progressivo calo delle nascite dalla metà anni ’70, diminuzione della propensione alla procreazione, ritardato inserimento nel lavoro, crisi economica, scarso investimento sui figli visti più come problema che come risorsa, instabilità dei nuclei familiari, ecc. Politicamente poi, l’Italia investe poco sui minori; basti pensare allo scarso sostegno a famiglia e maternità, al fatto che i nostri insegnanti sono i peggio remunerati in Europa (OCSE 2013) e che nelle città spesso non si hanno spazi adeguati per le attività ludiche e di aggregazione giovanile. Apparentemente, fa eccezione la Pediatria. Abbiamo – complessivamente – uno dei più alti numeri di pediatri in Europa, le cure primarie al bambino affidate allo specialista pediatra, ulteriori presidi territoriali come la pediatria di comunità e i consultori giovani, una diffusione capillare delle unità ospedaliere di Pediatria.

Tuttavia, sebbene la Pediatria italiana abbia inequivocabilmente raggiunto traguardi di eccellenza, non è tutto oro quel che riluce. Tranne lodevoli eccezioni, il pediatra di famiglia lavora spesso in maniera individuale e scarsamente integrato rispetto ai colleghi e agli operatori sanitari e sociali presenti sul territorio e in ospedale, non rispondendo in modo adeguato alla mutata realtà assistenziale, caratterizzata tra l’altro da un incremento della patologia cronica e rara ad alta complessità e delle problematiche psico-intellettive in infanzia e adolescenza. La rete ospedaliera è ipertrofica con un eccessivo numero di piccoli reparti pediatrici, sottodimensionati, tecnologicamente arretrati e con gravi carenze assistenziali – ad esempio – in emergenza/urgenza, adolescentologia, patologia cronica/ rara. I Consultori giovani sono stati realizzati più per esigenze politiche locali che di reale programmazione e nella maggioranza manca il pediatra (rapporto SIMA 2011). Gli interventi di educazione alla salute nella scuola hanno poco tenuto in considerazione una programmazione nazionale, che coinvolgesse le specifiche competenze di educatore del pediatra.

Come già ricordato in passato, la crisi del Paese, le variazioni demografiche e dei bisogni di salute – e in prospettiva la riduzione dei pediatri – impone di ripensare il modello assistenziale a infanzia e adolescenza. È auspicabile che il tavolo tecnico del Ministero della Salute su “Linee di indirizzo per la promozione e il miglioramento della qualità, della sicurezza e dell’appropriatezza degli interventi assistenziali in area pediatrico – adolescenziale” possa concludere i propri lavori, concretizzando in breve tempo i futuri scenari del sistema di “care” pediatrico. Il presupposto perché tale progetto si realizzi è la coesione tra tutte le componenti della Pediatria italiana senza la difesa corporativa dei privilegi, piuttosto che della centralità dei diritti dei minori, perché il rischio è quello – in un Paese con molti anziani e troppo pochi bambini – di una “colonizzazione” da parte di un modello nordico di assistenza con un numero molto ridotto di pediatri concentrati prevalentemente in grandi ospedali e di una fagocitazione dell’assistenza primaria e delle specialità pediatriche da parte dei medici dell’adulto nella gran parte del territorio.

Silvano Bertelloni e G. Roberto Burgio