Lo scorso mese si sono tenute due interessanti iniziative sui disordini della differenziazione sessuale (DSD), cioè un gruppo di condizioni complesse e rare, nelle quali per anomalie dello sviluppo embrionale si ha la nascita di individui con gonadi disgenetiche o discordanti con il fenotipo o con ambiguità dei genitali interni e/o esterni o fenotipo genitale non in accordo con il cariotipo. Il quadro clinico è estremamente variabile, tanto che vi può essere incertezza sull’attribuzione del sesso. In alcune persone, la presenza di un DSD può poi essere scoperta durante l’età prescolare o scolare, ad esempio in una bambina in cui durante un intervento per ernia inguinale si rilevano delle gonadi maschili, o alla pubertà per una virilizzazione del fenotipo o amenorrea primaria in una adolescente. Si tratta dunque di alcune delle situazioni più delicate a cui un pediatra deve fare fronte – spesso inaspettatamente – nel corso della professione, il cui il management rimane a volte non ben definito. A Pisa, Paolo Ghirri ha organizzato un corso teso a delineare percorsi omogenei per i neonati con DSD: è stata ribadita la necessità di adottare la nuova nomenclatura, evitando l’uso di vecchi termini (per esempio, intersessi) che possono aumentare le ansie nei genitori ed essere stigmatizzanti per il bambino, proposto un protocollo diagnostico per i punti nascita e presentata una bozza di registro che − se adottato − potrebbe portare a una migliore conoscenza epidemiologica dei DSD. A Roma, Giacinto Marrocco ha promosso una riunione spontanea di pediatri, genetisti, psicologi, chirurghi e urologi pediatrici, radiologi, laboratoristi con l’obiettivo di favorire la nascita di un network nazionale in grado di individuare percorsi assistenziali condivisi sui DSD, fornire indicazioni per la pratica clinica, realizzare un forum in cui discutere, con l’ausilio delle associazioni dei pazienti, sulle migliori decisioni da prendere in quei bambini in cui le evidenze cliniche non forniscono risposte univoche, su cosa fare e quale sesso assegnare alla nascita o eventualmente riassegnare nel caso di una diagnosi tardiva. A questo proposito, in Germania è diventata operativa dal 1° novembre una legge, unica in Europa, che ha aperto molte discussioni anche sulla stampa non specialistica: la nuova norma permette ai genitori di lasciare “aperta” l’assegnazione del sesso al momento della registrazione agli uffici anagrafici del nuovo nato in caso di certificazione attestante un DSD da parte di un centro specialistico. Questi esempi, seppure relativi a una popolazione di per sé esigua, ribadiscono un rilevante problema etico e clinico che i pediatri si trovano di fronte quando incontrano un bambino con una malattia rara, ovvero decidere sulla base di informazioni molto spesso non “evidence based” sul miglior percorso assistenziale in grado di garantire la migliore qualità di vita – somatica e psico-sociale – anche durante l’età adulta. La problematica ha dimensioni enormi. Infatti, se le singole malattie sono per definizione rare (cioè < 1: 2.000) e per alcune di esse sono noti pochi individui, complessivamente il 6-8% della popolazione in Europa risulta affetto da queste condizioni, di cui oltre il 50% si manifesta in infanzia e adolescenza. Una corretta diagnosi si raggiunge a volte dopo anni, per cui alcune famiglie intraprendono veri e propri tour della speranza, anche rivolgendosi verso percorsi clinico-terapeutici illusori (Il Pediatra 2013; 3: 2 e 4: 18-24). Questo numero de Il Pediatra torna sul variegato universo delle malattie genetiche rare, affrontando diversi aspetti che possono aprire una riflessione – a cui ci auguriamo i lettori vogliano prendere parte − per una più adeguata presa in carico di questi bambini e delle loro famiglie. L’obiettivo è quello di migliorare la cultura professionale in modo da non offrire né informazioni frammentarie o inesatte né false speranze, ma nemmeno tunnel completamente oscuri che non tengano conto delle novità che la ricerca di qualità sta proponendo.
Silvano Bertelloni e G. Roberto Burgio