A Goteborg (Svezia) è nato il primo bambino da una donna con sindrome di Rokitanski (35 anni) sottoposta a trapianto di utero da donatrice vivente (un’amica, 61 anni, in menopausa da anni) (Lancet, 6 ott. 2014). Prima del trapianto, sono stati ottenuti alcuni embrioni mediante tecniche di fecondazione in vitro, poi congelati. Dopo circa un anno, uno di questi è stato impiantato con successo nell’utero trapiantato. Durante la gravidanza, la mamma è stata trattata con un triplice regime immunosoppressivo per il rigetto; per l’insorgenza di pre-eclampsia, è stato eseguito un parto cesareo poco dopo la 35a settimana di gestazione con la nascita di un neonato di peso adeguato all’età gestazionale, APGAR 9-9-10 e senza evidenti difetti fenotipici. Il team che condotto la ricerca conclude l’articolo su Lancet affermando che questa tecnica potrà permettere la fertilità a un limitato donne con assenza congenita o acquisita di utero.
«Appena ho sentito questo bambino “perfetto” che mi cresceva dentro ho pianto lacrime di gioia e di sollievo» ha dichiarato la mamma in un’intervista; ha aggiunto il team leader che ha eseguito il trapianto: «Adesso tutto è posto». Tra i molti aspetti che la vicenda presenta, a seconda di come venga interpretata, è la dichiarazione di gioia della neo-mamma, emotivamente coinvolgente, che mette l’accento sul problema più delicato: il grado di “perfezione” che dei genitori si aspettano dopo una percorso così impegnativo sia dal punto di vista fisico che psicologico. L’attesa di un bimbo è sempre caratterizzata da grandi speranze ma anche gravata da ansie sul suo stato di salute; non per niente la diagnostica prenatale ha avuto negli anni un’enorme – forse eccessiva – diffusione. I genitori si aspettano sempre il meglio, ma a volte devono confrontarsi con problematiche anche gravi già presenti alla nascita o che insorgono durante l’infanzia o l’adolescenza, sia mediche che psicologiche: non sempre quello che sembra “a posto” alla nascita in effetti lo è. In questo singolo caso, non possono non venire alla mente i possibili danni genetici o epigenetici legati per esempio alla fertilizzazione in vitro, all’esposizione a farmaci antirigetto, sebbene esperienze in altri tipi di trapianto sembrano avere dimostrato scarsi effetti teratogeni di tali terapie (Hou, Adv Chronic Kidney Dis 2013), all’utilizzo di un utero “anziano” già in menopausa. La sola “fertilità” per una coppia non può quindi essere che un endpoint surrogato, di un percorso molto più lungo e complesso riassumibile nel termine di “genitorialità”, cioè capacità di amare, accudire ed educare il proprio bambino indipendentemente dalle situazioni di “non perfezione” che si dovessero manifestare negli anni legate o meno a un “percorso nascita” più o meno impegnativo.
Con questo nuovo traguardo si apre comunque un nuovo capitolo della giovane medicina della riproduzione dopo la fertilizzazione in vitro (anni ‘70), l’iniezione introcitoplasmatica di spermatozoi (anni ‘90), il trapianto di ovaio (anni duemila), ma anche molte e complesse problematiche; le varie opportunità che il progresso scientifico oggi propone per il trattamento dell’infertilità dovrebbero essere infatti bilanciate in base a profonde riflessioni etiche e sociali (Editoriale, Lancet 384, 2014), non ultime quelle economiche in un periodo di scarse risorse, anche mediante un dibattito non strumentalizzato su cosa debba essere garantito dai sistemi sanitari che si definiscono nazionali e universalistici: cioè se procedure complesse di alto costo (ma non salvavita) per il beneficio di pochi o interventi di costo ridotto per ampie fasce di popolazione tesi a migliorare omogeneamente il livello di salute sul territorio. Una parte di risposte è certamente compito dei pediatri con un attento e prolungato follow-up di questi “nuovi” bambini.
Silvano Bertelloni