Di recente, la Commissione Adozioni Internazionali ha pubblicato i dati relativi all’anno 2021, nel quale 563 coppie italiane hanno adottato 680 minori, in media 1,2 minori per famiglia.

I tempi per concludere un’adozione risultano oggi nettamente maggiori che in passato, fino a quasi 70-80 mesi per Paesi come le Filippine e il Vietnam. Il superamento dei lunghi tempi burocratici indica la determinazione dei futuri genitori, ma alcuni dati forniti dalla Commissione Adozioni Internazionali suggeriscono anche delle riflessioni, che ci coinvolgono profondamente come professionisti della salute dei bambini e degli adolescenti.

Un primo aspetto riguarda l’elevato numero di minori adottati con bisogni speciali (ben oltre il 60% nel 2021), che dimostra come le coppie adottive italiane siano disponibili ad accettare situazioni difficili e come siano «sempre più corrispondenti alle esigenze rappresentate dai bambini in difficoltà» (V. Starita).

Questi minori possono, infatti, essere a rischio socio-sanitario per aver trascorso periodi più o meno lunghi in condizioni disagiate con carenze igienico-nutrizionali e psico-affettive.

Inoltre, la loro storia clinica familiare, pre-natale e post-natale è molto spesso particolarmente povera di notizie medicalmente rilevanti su patologie genetiche, gravidanza a rischio o condotta con abuso di alcol o di sostanze, problematiche perinatali, peso e lunghezza alla nascita, vaccinazioni, traumi, pregresse patologie, etc. che si deve cercare di individuare con un’attenta valutazione clinica, supportata da eventuali indagini di laboratorio.

Un secondo aspetto riguarda, dunque, il fatto che questi bambini necessitano di una particolare professionalità da parte dei pediatri che li prendono in carico sia a livello territoriale o – se necessario – in ambito specialistico. Si deve assicurare un’adeguata valutazione di eventuali problemi medici presenti o in divenire in conseguenza dell’adozione (es. pubertà precoce), unitamente a un adeguato follow-up neuro-psicologico protratto nel tempo in modo da favorire un percorso di integrazione in ambito familiare, sociale e scolastico.

A questo proposito è opportuno ricordare l’importante opera culturale e pratica svolta dal Gruppo di Lavoro Nazionale per il Bambino Migrante della Società Italiana di Pediatria, che ha favorito la nascita di una rete di Centri di Riferimento, sparsi in tutta Italia, per l’accoglienza e il monitoraggio dei bambini adottati provenienti dall’estero a sostegno non solo delle famiglie ma anche delle cure primarie.

Un terzo aspetto, come sottolineato da Roberto Burgio e Anna Pia Verri già alcuni anni fa (Occhio Clinico Pediatria, 2006), riguarda la capacità di sviluppare una comunicazione efficace. Il pediatra che ha in carico bambini adottati provenienti dall’estero deve saper aprire un dialogo costruttivo con i genitori adottivi per superare le ansie legate sia a pregressi problemi di fertilità di coppia, che possono avere generato dubbi sulle loro capacità genitoriali, sia alla necessità di stabilire una nuova organizzazione relazionale con l’ingresso di un nuovo membro – a volte non neonato ma già in età scolare o anche adolescenziale – all’interno della famiglia.

Il pediatra dovrà, poi, avere anche la capacità di entrare in comunicazione con un minore che possiede linguaggio, tradizioni, cultura diverse da quelle del nostro paese e spesso paure – anche di ambito sanitario – legate alla vita nel Paese di nascita.

Si tratta di sfide non facili per tutti coloro che sono coinvolti in questo percorso, che necessariamente deve essere valutato anche in termini di esiti sulla qualità di vita dei genitori adottanti e degli adottati in età giovane adulta.

Di questi vari aspetti prendiamo impegno di un prossimo futuro approfondimento.