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di Elena D’Alessandri
Considerata a lungo una patologia prevalentemente maschile, la malattia di Anderson-Fabry manifesta nelle donne un volto complesso, sovente sottovalutato. Le pazienti non sono semplici “portatrici sane”, ma possono sviluppare un ampio spettro di sintomi che rendono la diagnosi un percorso a ostacoli. A complicare il quadro clinico e assistenziale la delicata transizione dall’età pediatrica a quella adulta. Il tema al centro di un webinar promosso da AIAF lo scorso 13 settembre.
La malattia di Anderson-Fabry è una rara patologia genetica legata al cromosoma X, causata da varianti patogene nel gene GLA, che codifica l’enzima lisosomiale alfa-galattosidasi A. L’attività enzimatica ridotta o assente porta all’accumulo di glicosfingolipidi tossici nei tessuti renali, cardiaci e nervosi, con danni progressivi agli organi e complicazioni potenzialmente letali.
La definizione del momento appropriato per l’inizio del trattamento rappresenta una vera e propria sfida, in particolare nella popolazione pediatrica, dal momento che la progressione asintomatica di malattia può protrarsi a lungo.
La donna: paziente e non ‘portatrice sana’
Trattandosi di una patologia connessa al cromosoma X, molto a lungo si è ritenuto che la stessa colpisse i maschi in forma grave, mentre le donne ne fossero solo ‘portatrici’ asintomatiche. Gli studi scientifici hanno però dimostrato il contrario: a causa dell’inattivazione casuale del cromosoma X, le donne possono sviluppare la malattia con sintomi variabili e progressivi. La variabilità del quadro clinico rende la diagnosi difficile e spesso tardiva, con impatti sulla prognosi e sulla qualità della vita.
La sfida della transizione
Ed è proprio nel passaggio dall’età evolutiva a quella adulta che emerge una delle maggiori sfide. Crescendo, ci si scontra spesso con un sistema di cure frammentato e con una interruzione della continuità terapeutica che porta con sé un calo dell’aderenza, una gestione insufficiente dei sintomi e, in ultima analisi, un peggioramento della qualità di vita.
Per superare questo divario, è essenziale l’implementazione di protocolli di transizione strutturati che garantiscano una continuità terapeutica senza interruzioni; l’obiettivo non è solo garantire la continuità delle terapie specifiche, ma anche il supporto psicologico e sociale, ancor più importante in un’età in cui le giovani pazienti cercano la propria autonomia e identità.
Il webinar di AIAF e i suoi obiettivi
Seguire tutto il percorso evolutivo della donna con Fabry appare dunque essenziale per garantire una presa in carico precoce e un supporto clinico, psicologico ed educativo.
AIAF – Associazione Italiana Anderson-Fabry, in collaborazione con Sanofi e con il supporto di OMaR – Osservatorio Malattie Rare, lo scorso 13 settembre ha organizzato un webinar di approfondimento sulla tematica: “Crescere con la malattia di Fabry da bambina a donna. Viaggio tra sfide, consapevolezze e identità femminile” con l’obiettivo di esplorare – attraverso il confronto con la Dr.ssa Serena Gasperini, pediatra del reparto malattie metaboliche ereditarie della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza e con il Prof. Federico Pieruzzi, Dirigente medico Universitario della Clinica nefrologica dell’ASST di Monza, direttore della Nefrologia presso la Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza e Professore Associato presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca – le diverse tappe del vissuto femminile con Fabry, evidenziando i bisogni specifici, l’importanza di una diagnosi tempestiva e promuovendo un approccio multidisciplinare centrato sulla persona e sull’intero arco della crescita.
La diagnosi e le manifestazioni femminili
La diagnosi della malattia di Fabry nella donna può avvenire: per familiarità, sintomatologia (nella donna l’insorgenza è più lenta, a partire dalla seconda decade), o attraverso lo Screening Neonatale Esteso, non disponibile però in tutte le regioni e spesso dedicato solo ai maschi.
Nella donna la malattia può essere: asintomatica, paucisintomatica o sintomatica; tuttavia a oggi non esiste uno strumento che consenta di ‘etichettare’ la tipologia di caso. Ne consegue che la patologia richiede una valutazione clinica a 360° con frequenti controlli.
La sfida più grande nella donna è cogliere la corretta ‘finestra terapeutica’ per evitare di iniziare la terapia quando il danno d’organo si è già presentato, ma al contempo non essere troppo tumultuosi avviando il trattamento in anticipo.
Se da un lato è confortante osservare che il 60% delle donne risulta asintomatica, va comunque considerato che il 40% manifesta sintomi renali, cardiaci, gastrointestinali o del sistema nervoso periferico.
Altresì a fronte di un 80% delle pazienti che non va incontro a progressione di malattia, circa 2 su 10 sperimentano un aggravamento della condizione.
Monitorare l’evoluzione per scongiurare fallimenti diagnostici
Per quanto i controlli frequenti, anche in assenza di sintomi, rappresentino un importante burden per le pazienti, sono molto importanti per intercettare anche minimi cambiamenti. In particolare, oltre a seguire l’andamento familiare di malattia, è importante monitorare i marcatori di patologia e sottoporsi a indagini annuali, a partire da quelle cardiologiche, con ecocardio ed EGC (risonanza cardiaca su base biennale), ma anche visita oftalmologica, audiometrica, spirometria, RMN encefalo e, per la valutazione del danno d’organo, biopsia cardiaca, renale, cutanea.
Esistono segnali tipici nella giovane donna che devono spingere ad approfondimenti: l’intolleranza al caldo, la resistenza al dolore, problemi mestruali. L’impatto è notevole anche in termini di qualità di vita sia in adolescenza, in cui si cerca di tenere nascosta la malattia per non sentirsi diversi, sia in età adulta, in cui forte è l’ansia per il futuro.
Il monitoraggio nel tempo, con una adeguata transizione – hanno ribadito gli esperti in conclusione – appare essenziale per scongiurare i fallimenti diagnostici.