Nonostante ci sia la normativa ancora molte Regioni sono inadempienti ed è bassa la percentuale di bimbi che vi accedono. L’appello degli esperti

La legge c’è (38/2010), e da diversi anni, ma le stime parlano di solo un 15% di bambini con diritto alle cure palliative che effettivamente vi accedono. L’appello viene dagli esperti al Convegno ‘Il bambino con malattia inguaribile. Riflessioni bioetiche e cure palliative’, organizzato dall’Accademia Nazionale dei Lincei in collaborazione con la Società Italiana di Pediatria (SIP) e l’Università di Roma La Sapienza, che sottolineano come il diritto alla migliore qualità di vita possibile sancito dalla legge vada garantito a questi bambini e alle loro famiglie.

Viene riportato come in Italia i bambini con malattie (neuromuscolari, metaboliche, genetiche, oncologiche, respiratorie, cardiologiche, malformative) in cui la morte precoce è inevitabile e spesso anche imprevedibile sono circa 30.000. Si tratta di condizioni che necessitano cure multispecialistiche, che comprendono per esempio ventilazione, tracheostomia, nutrizione endovenosa, e ricoveri frequenti in ospedale. Ma nonostante la legge, in molte Regioni l’accesso alle cure palliative pediatriche non è garantito. Spiega in merito Annamaria Staiano, presidente della SIP: “A livello nazionale gli interventi palliativi rivolti al minore sono limitati ad esperienze isolate. I motivi sono molteplici: la complessità stessa del problema, carenza di formazione, fattori culturali e sociali, difficoltà organizzative ed economiche. Solo una parte minoritaria di pazienti eleggibili può usufruire di cure palliative pediatriche e generalmente per periodi di tempo relativamente limitati”.

Casa, ospedale, hospice

Sul tema si unisce Mario De Curtis, presidente del Comitato per la bioetica della SIP, ricordando come le cure palliative rappresentino una presa in carico del paziente e del suo nucleo familiare non solo nella fase terminale ma fin dalla diagnosi e durante l’evoluzione della malattia. Riporta inoltre l’importanza di distinguerle da quelle rivolte all’adulto, “per le differenti caratteristiche biologiche, psico-relazionali, cliniche, sociali, etiche e spirituali del paziente pediatrico”. Ecco quindi che nonostante la casa rappresenti il posto migliore per l’assistenza, spesso non ci sia la rete territoriale necessaria per avere cure domiciliari continuative: “Di conseguenza spesso è necessario ricoverare anche per molto tempo il bambino in ospedale, con tutti gli inconvenienti legati alla mancanza del calore di un ambiente domestico”.

Anche la possibile risposta a questa carenza, che potrebbe essere rappresentata dagli hospice, non è realizzata ovunque, racconta Franca Benini, responsabile del Centro regionale Veneto di Terapia del Dolore e Cure Palliative Pediatriche: “Nonostante la legge 38/2010 abbia previsto la realizzazione di almeno un hospice per ogni regione, sinora ne sono stati realizzati solo 8 e 6 sono in fase di attuazione. Nel complesso sinora 13 regioni hanno attivato la rete di cure palliative prevista dalla normativa: se molto è stato fatto, molto resta ancora da fare”. Il risultato è che i bambini più grandi spesso vanno nell’hospice dell’adulto, mentre i più piccoli muoiono in ospedale.

Diffondere la formazione

Renato Cutrera, responsabile del Gruppo di studio sulle cure palliative della SIP e responsabile Pneumologia Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, si è soffermato sul ruolo della formazione: “Anche a livello formativo esiste la necessità di un numero maggiore di professionisti capaci di garantire la gestione clinica delle problematiche trasversali inerenti la cronicità e lo sviluppo di interventi per la presa in carico della patologia di base”, e in merito Andrea Pession, Professore Ordinario di Pediatria presso l’Università degli Studi di Bologna riporta qualche passo avanti fatto con la legge n.77 del 17 luglio 2020 “che ha introdotto il corso di cure palliative pediatriche nell’ambito dei corsi obbligatori in tutte le Scuole di Specializzazione in Pediatria”.

Fatica e solitudine delle famiglie

Non solo i piccoli pazienti, ma anche le loro famiglie si trovano ad affrontare prove e difficoltà e necessitano di sostegno: “La rinuncia al lavoro del caregiver familiare, la precarietà economica in cui versano, l’assistenza continua 24h al giorno per 7 giorni alla settimana, l’impossibilità di poter dormire una notte di fila e di andare in vacanza, la solitudine causata dall’impossibilità di curare le relazioni sociali ma anche dal tabù del bambino malato, consumano e corrodono l’equilibrio familiare e la salute del caregiver”, riporta Francesca Baldo, presidente di Respirando Associazione Famiglie Bambini Medicalmente Complessi. “Assistere un bambino medicalmente complesso significa anche vivere in costante attesa di un’emergenza medica e con la paura di trovarsi, o ritrovarsi, a dover rianimare il proprio figlio. Significa convivere con un Disturbo da Stress Post-Traumatico, quasi sempre non diagnosticato né trattato”. Un percorso molto complesso, che il periodo della pandemia ha ulteriormente complicato, come sottolineato da Sergio Amarri, della Fondazione Isabella Seragnoli di Bologna: “La recente letteratura sugli effetti della pandemia ha evidenziato che l’isolamento legato al periodo ha portato a una maggiore solitudine (anche nel morire). Questi bambini, che sono lungo sopravviventi abituati ad avere dei caregiver, magari si sono ritrovati soli in un reparto di rianimazione. Dunque, l’isolamento e le difficoltà delle famiglie a continuare ad avere terapie di supporto e servizi sono i problemi maggiormente evidenziati”.