Promuovere il futuro

Per la natalità, l’Italia si pone all’ultimo posto in Europa e verosimilmente nel Mondo (Indicatori demografici, www.istat.it). Nel 2016, secondo i dati Istat, i nuovi nati sono infatti stati circa 474.000 cioè il 2,4% in meno rispetto al 2015, che già rappresentava il precedente minimo storico. Un neonato su cinque (19,4%) ha una madre di altra nazionalità, per cui il saldo complessivo delle nascite sarebbe ancora più negativo in assenza dei circa 92.000 bambini con la mamma non nata in Italia. In pratica, la piramide della popolazione residente si è ormai trasformata in un fungo per un progressivo incremento dell’indice di vecchiaia (www.istat.it). Il numero medio di figli per donna, in calo per il sesto anno consecutivo, si è attestato a 1,34 con un’inversione geografica rispetto solo a pochi anni fa. I tassi di fecondità più elevati si riscontrano oggi nelle regioni con migliore tenore socio-economico (Nord: 1,4 figli/donna; Centro: 1,31 figli/donna) e quelle del Sud rappresentano il fanalino di coda (1,29 figli/donna), mentre in un recente passato erano le più feconde. Le cause di questa situazione sono complesse e sicuramente coinvolgono diversi fattori, tra cui, come si evince dai pochi dati sopra esposti, è coinvolta la crisi economica. Basti pensare alla situazione della popolazione giovane-adulta, cioè quella che dovrebbe avere il maggior tasso di fecondità, caratterizzata da un elevato tasso di disoccupazione, che raggiunge quasi il 25% nell’età tra i 15 e i 34 anni (www.istat.it; marzo 2017) e che dilaga proprio nelle regioni del Sud, dove si arriva a percentuali del 40-50%. Si deve poi aggiungere il fenomeno della precarizzazione, sviluppatosi negli ultimi anni, che rende maggiormente incerto anche il futuro delle giovani coppie inserite nel mondo del lavoro. La crisi economica ha poi inciso sui servizi all’infanzia, che dovrebbero favorire sia un maggiore inserimento occupazionale della donna sia una migliore conciliazione tra vita familiare e lavorativa (Strategia Europea 2020). Già 10 anni fa Roberto Burgio sottolineava la carenza di servizi socio-educativi per la prima infanzia e le forti differenze regionali, che penalizzavano le aree del Sud (Una Pediatria per la Società che cambia, 2007). Sempre secondo i dati Istat (novembre 2016), la situazione non è migliorata. Le attuali 13.459 unità, che offrono servizi socio-educativi per l’infanzia (35% pubblico; 65% privato), coprono solo il 22,5% del potenziale bacino di utenza e permane una forte diseguaglianza tra le varie regioni (Centro-Nord 28,2%; Mezzogiorno 11,5%). Negli anni, si è poi ridotto il finanziamento pubblico per tali strutture (circa -3% nel solo 2012 – 2013), richiedendo un maggior impegno economico alle famiglie. Anche le differenze nella spesa comunale in rapporto al bacino di utenza rispecchiano i tassi di fecondità: la più alta si ha a Trento (3.560 euro/bambino residente), quella più bassa a Reggio Calabria (31 euro/bambino, cioè oltre cento volte meno). Un miglioramento del «fertility rate» per cercare di recuperare il gap, che separa l’Italia dai paesi europei maggiormente attenti al futuro della loro popolazione – come Francia e Regno Unito, Svezia a cui sembra pienamente avvicinarsi la sola provincia di Bolzano – è purtroppo ancora lontano, nonostante dichiarazioni ufficiali ed enunciazione di programmi anche di recente realizzazione. Il pediatra – «antenna sociale» e «avvocato del bambino» (G.R. Burgio) – unitamente alle altre figure professionali interessate, non può non adoperarsi nel cercare di sensibilizzare le Istituzioni e l’opinione pubblica per concreti piani d’azione e di reale supporto a infanzia e adolescenza, anche tesi a colmare le diseguaglianze tra le varie aree del Paese, in quanto promuovere la crescita di una più ampia popolazione minorile è fondamentale per investire concretamente sul futuro della Società.