Esperti a confronto in un incontro online per discutere sui dati e ipotesi relative questa condizione patologica
Sviluppare linee guida per la prevenzione e la cura delle nuove epatiti virali che stanno colpendo i bambini con meno di 5 anni e che potrebbero essere responsabili di altre problematiche anche dopo la cura. Il tema è stato al centro di un incontro online “Nuova epatite, pediatrica: lavorare insieme per la prevenzione” promosso da Fondazione Etica onlus, condotto da Valentina Arcovio, giornalista scientifica di 30 Science Communications, che ha visto tra i relatori la partecipazione di Giovanni Rezza, Direttore Generale Sezione Prevenzione Salute del Ministero della Salute, Giuseppe Indolfi, Pediatra, Epatologia all’Ospedale Meyer dell’Università di Firenze, membro del gruppo di lavoro sull’epatite della Società Italiana di Pediatria, Massimo Galli, già direttore del reparto di malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano.
L’obiettivo, imparando dalla pandemia, è sviluppare pratiche esemplari per salvaguardare la salute dei bambini, a tutela delle fasce più deboli e indifese della popolazione, grazie a iniziative e incontri tematici di dialogo e condivisione con i principali esponenti in campo scientifico ed epidemiologico. Un obiettivo raggiunto con la produzione un manifesto (firmabile su Change.org), che si propone di affermare il valore della prevenzione e degli sforzi coordinati contro le nuove minacce sanitarie condivise di natura internazionale.
I dati attuali
I primi casi notificati di questa forma di epatite e insufficienza epatica acuta nei bambini risalgono al 5 aprile da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). L’aggiornamento dell’OMS al 22 giugno riporta di 920 casi probabili in 33 Paesi, la metà dei quali in Europa (soprattutto nel Regno Unito, 29% del totale globale), e l’altro Paese con un numero alto di casi è rappresentato dagli Stati Uniti. Complessivamente, 45 bambini hanno avuto necessità di un trapianto di fegato; i decessi segnalati per queste epatiti sono stati 18 decessi.
“Sia chiaro: non stiamo parlando di una patologia nuova, clinicamente sconosciuta, misteriosa. Quel che preoccupa noi pediatri è, come sempre, l’insufficienza epatica acuta associata all’epatite, quando il fegato smette di funzionare” ha affermato Giuseppe Indolfi. “Si badi bene: l’OMS parla di diagnosi probabile di epatite che, di fatto, colpendo i bambini con meno di 5 anni, scagiona ogni sospetto su effetti avversi dei vaccini antiCovid-19. I dati, almeno per l’Europa, sono stati trainati dai casi verificatisi nel Regno Unito, prevalentemente in Inghilterra ma probabilmente over reported, il che fa pensare ad una certa localizzazione dell’epidemia. I sintomi peculiari presentati dai bambini in pronto soccorso sono stati soprattutto gastrointestinali e respiratori, con una condizione giallastra ‘itterica’ della cute, ma la buona notizia è che la maggior parte degli oltre 900 casi registrati nel mondo, guarisce da sola, in modo autonomo. C’è poi 1 caso su 3 di questi bambini che presenta insufficienza epatica acuta e rischia di andare in terapia intensiva, stando ai dati ECDC. Di questa percentuale, circa l’8% tra loro hanno avuto urgenza di un trapianto di fegato. Sotto questo profilo, dopo l’Inghilterra, i Paesi colpiti sono stati Polonia e Olanda. In Italia, già nel periodo 2018/19 e poi 2019/20, i casi di epatite pediatrica fatti registrare sono stati stabili: 36/37 casi, qualche decina. Le possibili ipotesi riguardo quest’incremento di epatiti pediatriche avuto nelle settimane scorse devono considerare, secondo me, tre parametri. 1. La suscettibilità dell’ospite – il bambino – all’eventuale stress pandemico; 2. Un possibile agente eziologico, un virus, per il momento sconosciuto; 3. La pandemia sullo sfondo”.
Il quadro italiano
Rispetto alla specifica situazione in Italia, sono stati riportati gli ultimi dati: “Al 21 giugno in Italia abbiamo avuto 75 segnalazioni: 8 di queste sono state escluse perché non aderivano per nulla ai criteri per la definizione di caso, in 33 casi la classificazione è stata sospesa e in 34 si tratta di casi probabili”, riferisce Giovanni Rezza, che sui casi probabili spiega: “troviamo diversi agenti eziologici che potrebbero o non potrebbero essere la causa di questa forma di Epatite acuta. Nel 10,5% dei casi come la casistica europea troviamo alla PCR il SARS-CoV-2 che, se andiamo a vedere sierologicamente vediamo nel 60% dei casi, dati che non sorprendono. L’adenovirus lo troviamo nel 43% dei casi, una percentuale piuttosto elevata ma al di sotto del 50%. Dopodiché questo adenovirus lo troviamo nelle feci nel 25% dei casi, dato che non é specifico di un’infezione che coinvolge il fegato”.
“Siamo in contatto l’ECDC perché abbiamo sostanzialmente il dovere di inviare i dati ogni settimana che siano confrontabili con quelli di altri paesi europei. Si era riunita l’unità di crisi che ora si è spostata sul monkeypox. Le riunioni si sono susseguite per circa 3-4 settimane di seguito. Dopodiché la situazione sembra essersi stabilizzata a un livello base che non sembra destare preoccupazione”, dice ancora Giovanni Rezza, che spostando l’attenzione sul quadro al di fuori dei confini italiani, aggiunge: “A livello europeo sono stati segnalati circa 450 casi di questa nuova Epatite di origine non conosciuta. Però la maggior parte dei casi è stata segnalata nel Regno Unito, dove sicuramente ci sono stati dei segnali di allerta: a fronte di 1, 2 o 3 trapianti di fegato nei bambini che si verificano ogni anno, ad averne 10, direi che qualcosa evidentemente c’è e non si può ignorare”.
Solo ipotesi
Vi sono due possibili scenari cui si è di fronte, a parere di Massimo Galli: “O sono stati riportati un numero di casi che non corrispondono ad un incremento reale, oppure abbiamo davanti qualcosa di effettivamente nuovo, correlabile alla pandemia tramite l’adenovirus 41. Allo stato attuale dei fatti, possiamo fare solo delle ipotesi, come quella fatta da 3 ricercatori giapponesi di Kyoto che mettono in correlazione le epatiti pediatriche e Omicron. Ma anche quella di Broaden e Arditi che sarà pubblicata solo ai primi di luglio su Lancet e che ipotizza come la persistenza del SARS-CoV2 nel tratto gastro-intestinale potrebbe aver determinato un rilascio di proteine attraverso l’epitelio intestinale comportando, a sua volta, un’attivazione immune mediata in ragione di un super-antigene. Un super antigene simile all’enterotossina b dello stafilococco e che può essere in grado di attivare, in modo esteso e non specifico, le cellule T. Questo processo potrebbe essere considerato il meccanismo che scatena l’autodistruzione del fegato e dunque il manifestarsi delle epatiti pediatriche acute. Ma sono solo ipotesi. Mi chiedo: perché non abbiamo il caso di una scolaresca che, insieme, ha avuto l’epatite? I dati a disposizione fanno pensare che in realtà non si siano verificate vere epidemie, facendo escludere la presenza di un virus x ancora sconosciuto. Non c’è neanche traccia di evidenze di long COVID, e né il vaccino per il COVID-19 può avere un ruolo, perché i bambini colpiti sono di età inferiore all’obbligo vaccinale. Piuttosto, mi sorprende il fatto che ancora non si sia pensato a raccogliere e incrociare dati clinici del fegato provenienti dalle autopsie o dai fegati espiantati”.